Riproponiamo qualche spunto emerso dal primo incontro del ciclo “Perché vivo a Napoli. Dialoghi per chi resta”, svoltosi al PAN il 9 gennaio 2014, con l partecipazione di Maurizio de Giovanni e Titti Marrone.
a cura di Giulio Maggiore
Perché vivo a Napoli? Questa domanda ha evidentemente colpito nel segno, vista la grande affluenza di pubblico al primo incontro che l’Associazione ha promosso nell’ambito del ciclo “Dialoghi per chi resta”. La sala del PAN era gremita e un folto gruppo di persone è rimasto in piedi a seguire il dibattito, durato più di due ore.
Gli ospiti erano gli scrittori Maurizio de Giovanni e Titti Marrone, che hanno risposto alle sollecitazioni di Giulio Baffi e Diego Guida. Ha aperto il confronto Emilia Leonetti, presidente di Vivoanapoli e moderatrice, che ha introdotto il tema della serata con la lettura di un testo in cui si proponevano vari spunti sulle ragioni e sulle difficoltà di una scelta – quella di vivere in questa città – che presenta non poche criticità. Il testo si concludeva con una domanda di fondo: è possibile essere felici a Napoli?
La provocazione è stata immediatamente colta da Maurizio de Giovanni, che ha sottolineato come il problema non sia tanto la felicità individuale, sempre accessibile a chi vive una situazione di privilegio, ma la felicità collettiva. D’altra parte, si può essere veramente felici se chi vive intorno a noi non lo è? Le attuali condizioni della di una città, “da sempre moribonda, ma in fondo immortale”, sprofondata in un degrado che produce tumori (e non solo in senso metaforico), sembrano escludere questa possibilità. Addirittura, sembra che non sia più neppure possibile sperare nella felicità, in un contesto dove fatalismo e rassegnazione prendono sempre più piede: si continua a protestare e criticare chi ci governa, ma al tempo stesso ci si adatta ad una civiltà senza regole e senza etica, “perché non possiamo fare diversamente”.
Eppure, come ci ricorda Titti Marrone, se restiamo a Napoli è perché non siamo ancora guariti dalla sindrome del “prima o poi”. Continuiamo a sperare che prima o poi riusciremo a sfruttare il potenziale offerto da questa città, che ha una storia e una tradizione culturale senza pari e deve riuscire a trovare una strada per valorizzare tante magnifiche risorse. Dopo l’illusione, intensa ma effimera, del breve “rinascimento napoletano” di bassoliniana memoria, è necessario riscoprire i valori che questa città è in grado di offrire e ricostruire su di essi, se non una prospettiva di felicità, almeno condizioni di serena convivenza civile.
Napoli è una città che offre molto a chi produce cultura. Maurizio de Giovanni ci ha confessato che resta a Napoli perché altrove non sarebbe capace di scrivere altrove o, almeno, non sarebbe capace di farlo nello stesso modo, perché c’é una parte di lui che “vive solo in questa città”: una parte cui non ha intenzione di rinunciare. Napoli è come una “madre rompiscatole”, di cui conosciamo tutti i difetti, ma che non cambieremmo mai con nessun’altra. Una madre che amiamo e a volte sopportiamo, ma che ci ha resi quello che siamo.
Da questa consapevolezza dobbiamo partire per costruire un percorso di riscatto, che vada oltre la retorica provinciale di chi vive nella nostalgia di una capitale europea ormai perduta nel passato, ma non deve neanche piegarsi al luogo comune del “castello degli orrori”, dove Napoli diventa un girone dell’inferno, destinato a catalizzare tutto il peggio del paese. Occorre prendere consapevolezza dei problemi gravissimi che attanagliano la città, senza cedere alla tentazione di un’autoflagellazione che asseconda il sensazionalismo di alcuni media (vedi la recente indagine de L’Espresso all’insegna del “bevi Napoli e poi muori”), sempre pronti ad enfatizzare le negatività napoletane per offrire uno sfogo alla cattiva coscienza nazionale (significativo, a tal proposito, è il testo che ci ha letto de Giovanni alla chiusura dell’incontro).
La borghesia e gli intellettuali devono svolgere un ruolo significativo in tal senso, uscendo dalla propria autoreferenzialità per aprirsi al confronto con tutta la città, che nell’area metropolitana accoglie quasi tre milioni di persone. È necessario costruire ponti verso quell’enorme parte di città, che vede un’altra televisione, ascolta altra musica, frequenta altri teatri. Solo ricostruendo una maggiore continuità nel tessuto sociale e culturale della città si può sperare di avviare un processo di reale cambiamento, attingendo alle energie e alle risorse che Napoli è già in grado di offrire, ma che richiedono di essere coordinate e canalizzate verso obiettivi comuni.
In tal senso, Maurizio de Giovanni ci ha ricordato l’idea lanciata in occasione del rogo della Città della Scienza di coinvolgere tutti gli artisti locali per organizzare un festival della cultura napoletana, al fine di offrire un contributo alla ricostruzione. Sarebbe stato un modo per restituire alla città un po’ di ciò che ogni operatore della creatività ha tratto da essa, ma la proposta è caduta nel vuoto a causa dell’inerzia delle istituzioni. Titti Marrone ha rilanciato, invitando a cogliere il trentennale della morte di Eduardo De Filippo, per promuovere un’iniziativa aperta a tutti i teatri della città, dove il ricordo del geniale drammaturgo napoletano possa davvero diventare un momento per riscoprire quell’identità che stiamo progressivamente perdendo.
Questi due spunti concreti sono stati accolti dall’Associazione Vivoanapoli, che si attiverà per verificarne la fattibilità. Si aggiungono agli stimoli intellettuali emersi nel corso di questo vivace dibattito, che ha avviato un percorso di riflessione sulle ragioni che ci spingono a vivere in questa città complicata, ma anche sulle strade da seguire per rendere questa scelta meno faticosa. Il prossimo appuntamento è per mercoledì 26 febbraio 2014, quando incontreremo due prestigiosi esponenti della cultura scientifica e umanistica, Andrea Ballabio e Rosanna Purchia, uniti dalla non comune scelta di “tornare” a Napoli per dirigere due delle più prestigiose strutture del nostro territorio.